Il mercato dell’effimero. Committenza, collezionismo e conservazione della net art

Articolo pubblicato in Flash Art Italia // 2003


 

di Valentina Tanni

Nei primi anni Novanta, Internet apparve agli occhi degli artisti come un mezzo dalle potenzialità democratizzanti, capace di rendere la comunicazione orizzontale e libera da intermediari istituzionali. La net art delle origini si contraddistingue per l’ostinata volontà di indipendenza e di caratterizzazione alternativa rispetto ad un sistema dell’arte considerato sterile e corrotto. Posizione rafforzata da una profonda coscienza della “diversità” del proprio linguaggio espressivo, per sua natura restìo ad adattarsi ai tradizionali metodi di esposizione e commercializzazione.
Nonostante questi assunti, e superata la prima fase di ‘avanguardia’  -quella che alcuni artisti chiamano, non senza nostalgia, “il periodo eroico”- l’ arte della Rete ha riconfigurato il suo rapporto con i musei e il mercato. A partire dalla decima edizione di Documenta, che nel 1997, tra applausi e polemiche, accolse la net art nel “tempio” dell’arte contemporanea internazionale. L’immaterialità, il carattere performativo e instabile di queste opere hanno costretto curatori e direttori di museo ad approntare nuovi strumenti di sostegno, puntando soprattutto sui modelli dell’acquisizione e della commissione.

L’acquisizione prevede una vera e propria vendita del progetto, che entra a far parte della collezione permanente del museo. Non trattandosi di un oggetto materiale, quello che viene acquisito è il codice sorgente che genera l’opera insieme ai diritti di esposizione e di immagine.
La prima grande istituzione che si confrontò con questa esperienza fu il Whitney Museum of American Art di New York -oggi dotato di un attivo dipartimento guidato da Christian Paul–  che nel 1995 inserì in collezione il progetto di Douglas Davis The World’s First Collaborative Sentence, donato da un collezionista. Questo meccanismo di acquisto ex-post rimase tuttavia un caso isolato, cedendo ben presto il passo al più diffuso sistema delle commissioni.
A testimonianza di questa tendenza è impossibile non ricordare la precocissima e vasta attività del Diacenter for the Arts di New York, che dal 1995 finanzia webprojects. Artisti di fama internazionale come Jenny Holzer e Francis Alÿs hanno avuto modo di confrontarsi con il nuovo medium proprio grazie al supporto del Diacenter, sotto la guida della curatrice Lynn Cooke.  Please change beliefs, ad esempio, trasla i  truism della Holzer dai consueti supporti a led luminosi allo spazio immateriale di Internet, invitando gli utenti a modificarli e ad inserirne di nuovi.
Meno concentrato sulla componente interattiva e più teso alla riflessione sociologica il lavoro di Francis Alÿs. The Thief instaura un parallelo tra la concezione prospettica rinascimentale del quadro come finestra e le odierne finestre virtuali di Windows e Internet. Il progetto è composto da una serie di ventuno pagine web e da uno screensaver scaricabile in cui possiamo vedere in azione “il ladro” del titolo mentre scavalca simbolicamente uno schermo chiaro. Il monitor viene assimilato da Alÿs ad una nuova soglia, oltre la quale si apre l’infinita distesa del cyberspazio, un luogo concettuale, costituito di pura informazione.
Ma il programma più completo, dotato di un coraggioso impianto curatoriale, didattico ed espositivo, era rappresentato, fino a pochi mesi fa, dalla Gallery 9, dipartimento di arte mediale del Walker Art Center di Minneapolis. Emergent artists-Emerging medium, il loro programma di commissioni, ha permesso la realizzazione di decine di progetti, attraverso finanziamenti di quasi 10.000 dollari ognuno (5000 dollari di fee più 2000/4000 di spese tecniche).  Il Walker è anche passato alla storia per acquisizione di äda ‘web, sito contenitore dei primissimi lavori di arte telematica, altrimenti destinato a scomparire per mancanza di fondi.
Nel maggio scorso, dopo sette anni di attività, la direzione ha soppresso il dipartimento e licenziato il suo curatore Steve Dietz. In risposta ad una lettera di protesta, firmata da quasi 700 tra artisti, critici e intellettuali, la direttrice del Walker Kathy Halbreich ha giustificato la decisione adducendo insormontabili problemi di budget. Ma non  ha convinto gli osservatori più attenti, tra cui lo stesso Dietz, che ricorda come la Gallery9 fosse quasi interamente a carico della Jerome Foundation. Inoltre, considerando il vertiginoso investimento di oltre 90 milioni di dollari in atto per l’espansione dei suoi spazi, il taglio del new media arts programme sembra essere dettato più da ragioni culturali. Il passaggio più controverso del comunicato di chiusura recitava: “…ci impegneremo comunque nell’implementazione della componente didattica del nostro sito web e nella realizzazione dei progetti interattivi relativi all’espansione del museo”. Se ne deduce una visione di Internet come mero “strumento di servizio”, e dimostra come, in tempi di crisi economica, siano probabilmente gli ambiti di ricerca meno consolidati del sistema (e nel caso della net art anche meno produttivi in termini di mercato), a farne le spese. I più ottimisti, come Mark Tribe -fondatore del portale Rhizome.org, punto di riferimento essenziale per tutta la comunità net-artistica- vedono nel dietrofront del Walker, accostato alla recente riduzione di attività di altri dipartimenti digitali come quello dello SFMOMA e quello del Guggenheim (Tribe parla di part-time), un’occasione per la net art di uscire dal suo isolamento. “La frontiera che divide l’arte mediale dalle altre forme d’arte si sta sfumando. Si tratta di un cambiamento auspicabile, secondo me. I muri del new media ghetto stanno crollando. Buttiamoli giù!”
Anche il MOMA di New York e lo SFMOMA di San Francisco possono vantare una collezione di web-projects, realizzati su commissione o in collaborazione con altri soggetti, privati o istituzionali. È il caso di Timestream di Tony Oursler (2001) o dell’intera sezione E-space, che lo SFMOMA ha creato nel 1998 sotto la direzione di Aaron Betsky. Il progetto di Oursler è un vasto archivio multimediale che permette di esplorare l’intera storia delle telecomunicazioni, dall’antichità al presente. Invenzioni tecnologiche come la camera oscura, il vaso di Leyden e i raggi X, vengono paragonati a strumenti moderni come telefoni cellulari, satelliti e telecamere di sorveglianza.

Come risulta da questo rapido excursus, le istituzioni che sostengono la net art sono quasi tutte statunitensi. Questo fenomeno è degno di attenzione, soprattutto se si considera che l’arte internettiana è nata in gran parte in territorio europeo. Nel vecchio continente però ha trovato spazio quasi solo in ambiti underground (associazioni culturali, piccoli festival, centri sociali) o in manifestazioni altamente specializzate, come il Festival Ars Electronica di Linz, il Viper di Basilea, il Transmediale di Berlino o il Deaf di Rotterdam. Fa eccezione la Tate Gallery di Londra, che dal 2000 commissiona net art ad artisti inglesi e non, esponendo le opere sul web all’interno di un sito all’avanguardia per qualità dei contenuti ed efficacia dell’interfaccia. Quattro gli artisti finora coinvolti (Simon Patterson, Mongrel, Heath Bunting e Susan Collins) e moltissime le iniziative collaterali come workshop, conferenze e tavole rotonde. Interessante anche il tentativo di Art and Money on-line, mostra organizzata da Julian Stallabrass alla Tate Modern nella primavera del 2000, dove quattro progetti web vennero esposti sotto forma di installazioni.
Una new entry è rappresentata, in questi mesi, dal Centre of Contemporary Art di Glasgow, fresco di commissione all’italiano Carlo Zanni. Attraverso un software appositamente realizzato il progetto Epic Tales dona alle pagine web l’aspetto di antichi manoscritti anglosassoni. L’opera rappresenta un suggestivo tentativo di “epicizzare” l’immagine -spesso banalizzata dai media- della violenza e della guerra nella società contemporanea.
Gli artisti americani Mark Napier e John F. Simon jr hanno avuto l’onore, lo scorso anno, di realizzare un progetto web destinato alle collezioni del Guggenheim. I due lavori, pagati circa 10.000 dollari ognuno (anche se la cifra esatta non è stata mai dichiarata), sono oggi visibili esclusivamente dal sito del museo. Netflag di Napier è un’ipotesi di bandiera del Web che si configura come la risultante del mescolarsi in tempo reale dei vessilli di tutto il mondo, mentre Unfolding Object di Simon esplora il tema dello spazio attraverso il dispiegarsi potenzialmente infinito di una scatola virtuale.
Napier e Simon sembrano i net artisti più interessati alla formazione di un mercato intorno alla propria produzione. Affiliati ad importanti gallerie newyorkesi (Bitforms e Sandra Gering), tentano di aggirare l’invendibilità dei software inventandosi nuovi criteri di compravendita. Mentre Napier vende “quote” di accesso del progetto multiutente The Waiting Room, a più collezionisti (per il costo di 1000 dollari l’una), Simon tenta di “oggettualizzare” la sua net art. “Ho cercato per molto tempo di vendere i miei lavori tramite internet, sotto forma di software, ma è stato un insuccesso. In qualche modo, ‘incapsularli’ in un oggetto sembra fare una grande differenza”.  Per questo disegna  computer  e monitor speciali, come fossero oggetti di design, e li vende assieme al software a prezzi che variano dai 5.000 ai 20.000 dollari.
Il circuito delle aste non è stato ancora raggiunto, ad eccezione di un isolato episodio che risale al 1996, quando Fred Forest vendette all’incanto -più come provocazione che come vero tentativo di entrare nel mercato- il suo progetto web Parcelle/Réseau all’Hotel Drouot di Parigi per circa 12.000 dollari.
L’inserimento della net art in contesti museali ha favorito la nascita di un dibattito circa i possibili criteri di conservazione. Il processo di “invecchiamento” delle tecnologie diventa ogni giorno più veloce e rischia di rendere molti progetti impossibili da fruire nel giro di pochi anni. Per affrontare questo problema, il Guggenheim ha ideato l’iniziativa Variable Media, partita nel marzo del 2000. Il progetto rappresenta un coraggioso tentativo di immaginare delle possibili soluzioni per una corretta conservazione e ri-esposizione delle opere “effimere”. Il concetto di media variabili, messo a fuoco dal curatore Jon Ippolito, si fonda sull’assunto che le opere possano cambiare supporto, a seconda delle limitazioni tecniche o dei nuovi contesti che incontreranno nel futuro. A questo proposito è stato approntato un questionario standard tramite la cui compilazione ogni artista può esprimere indicazioni per il trattamento futuro della propria opera, suggerendo soluzioni per “riadattare” il lavoro una volta che il medium originale non sia ripristinabile o sia divenuto obsoleto. Le strategie di conservazione della net art si presentano estremamente complesse perché richiedono un continuo lavoro di archiviazione e conservazione di enormi quantità di dispositivi hardware e software. Se il trasferimento su nuovi  supporti può sembrare a prima vista la soluzione più semplice, bisogna però considerare che l’intervento sull’opera è in questo caso molto invasivo, perché richiede una parziale riscrittura del codice sorgente. Il criterio dell’emulazione, invece, sembra riscuotere maggior successo perché non intacca il codice originale, ma allo stesso tempo permette di fruire le opere secondo gli standard visivi originari.