2004 / Rafael Pareja. I racconti della soglia

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La nostra ragione rischiara il mondo non più dello stretto necessario. Nel bagliore incerto che regna ai suoi confini si insedia tutto ciò che è paradossale” (Friedrich Dürrenmatt – La promessa, 1958)

Succede, talvolta. Capita che la realtà si pieghi, molle come cera, sotto le dita di un destino senza regole. Lasciando gli uomini privi di difese, con in mano le armi spuntate, inservibili, della logica e della morale. La via di fuga, in questi casi, è un viaggio su un veicolo monoposto, in compagnia della solitudine. Alle spalle lo spettro della follia. Ma succede anche, talvolta, che quel veicolo, allontanandosi dai territori della razionalità, attraversi paesaggi e città; fiumi e boschi, fermandosi, di tanto in tanto, per lasciare all’uomo il tempo di abitarli.
Migliaia sono i viaggi che l’uomo ha compiuto, in ogni epoca e in molta letteratura, per ritrovare sé stesso e riconquistare una ragione indebolita, un senso smarrito. Immerso in un ideale fiume di piscine (Caravan of Swimmers), solo davanti al muro assolato di una prigione (Folsom Prison’s Wall), inghiottito dal cuore nero della giungla (Sotto gli alberi), o chiuso nel grembo protettivo e paranoico della propria stanza (La via del Latte). Ognuno dei quadri di questa mostra porta con sé, nel titolo, il riferimento ad un’opera letteraria (Conrad, Durrematt, De Lillo, Poe, Dostoevskij), cinematografica (Kurosawa, Perry, Lynch), in un caso, quello di Johnny Cash, un brano musicale. Il quadro svela così un piccola parte della sua genesi, si dichiara frutto di un meccanismo evocativo. Lungi dall’illustrare semplicemente, l’opera d’arte si fa recettore di una moltitudine di suggestioni, in un affascinante tentativo di ricomporre le immagini mentali e le atmosfere emotive che ognuno di noi ricrea mentre ascolta un racconto. E che mescoliamo, nella memoria, ad altre suggestioni, ad altri luoghi, ad altre storie, ad altri sogni. Rafael Pareja lo fa ridisegnandone pazientemente le forme e scegliendo con cura i colori, cercando di sintonizzandosi sul battito profondo delle vicende cui fa riferimento.
La trama è sempre diversa, ma la storia in fondo la stessa: l’eterna battaglia della ragione contro l’incomprensibile, il mostruoso, l’irrazionale. Quel conflitto che Aby Warburg -che per tutta la vita ha cercato di dare un ordine, seppur provvisorio, a segni e simboli del sentire umano- chiamava “la tragica tensione tra il pensiero magico istintivo e la logica discorsiva”. Gli uomini, però, hanno abbandonato la scena -o forse, semplicemente, siamo noi a non guardarli- lasciando che i luoghi parlino al loro posto. I paesaggi, le stanze, gli oggetti, diventano narratori e interpreti di sensazioni e atmosfere, vibrano all’unisono con le emozioni che ospitano, scenari complici, quinte che non possono restare indifferenti. In questo l’artista svela un’attitudine romantica di stampo nordico, mostrandoci una natura ostile e complice allo stesso tempo, capace di impregnarsi, come una spugna, dei sentimenti umani, ma anche di mostrarsi minacciosa, ostile, incurante dei destini delle creature che la abitano.
Ma l’arte, si sa, è soprattutto una questione di sguardi, di prospettive, di punti di vista. Un gioco in cui spesso basta solo spostare la visuale per generare mondi inediti. Anche un giardino, coltivato e costruito con cura e dedizione, può diventare una grande opera d’arte. Talmente grande da poter essere vista da lontano, dall’alto del cielo. Forse persino dalla luna. E’ la missione di Ellison, protagonista del racconto di Edgar Allan Poe The Domain of Arnheim che, ereditata un’incalcolabile fortuna, decide di investirla nella costruzione dell’opera d’arte suprema, modellando la natura stessa, alla ricerca di un novello paradiso terrestre. E se all’uomo che la percorre essa appare come un ameno susseguirsi di prati e boschetti, ruscelli e campi, dalla luna forse assumerà l’aspetto di un grande quadro astratto. Rafael Pareja in L’Arte Vista Dalla Luna rievoca il pullulare di un organismo vivente, l’irregolarità armonica e bilanciata degli elementi naturali, l’ambigua bellezza di una pianta carnivora. E il paesaggio si trasforma di nuovo con la scomposizione del totale, l’isolamento dei dettagli, che comporta un ulteriore slittamento della visione. Una messa a fuoco ulteriore, che non rende le forme più riconoscibili, ma spinge lo spettatore all’immersione nel colore liquido che le compone.
Tutte le opere di Pareja sono scarne ed essenziali, le linee poche e tracciate con calcolata, solo apparente, noncuranza. Usa il computer per costruire le sue visioni, piegando però la macchina a strumento disegnativo e coloristico, sfruttando la precisione e la trasparenza dell’immagine digitale, ma evitando di cedere ad un’ormai fin troppo diffusa estetica -quella dell’artificiale, del futuribile, del macchinico- nè si affanna a stupire in perfezione e verosimiglianza. Il suo linguaggio è interamente costruito sulla relazione dialettica tra le macchie di colore -una macchia che si fa alone, emanazione luminosa- e il segno. Un segno che ricorda il linguaggio infantile o primitivo, ma assume il tono di una raffinata grafia, e sa trasformarsi in filo incadescente, tungsteno di lampadina, sempre sul punto di spezzarsi per lasciare posto al buio totale. I quadri stessi rappresentano così, insieme alle storie che evocano, una soglia, un limite. Come la striscia gialla di Folsom Prison’s Wall, che separa la prigionia dalla libertà, il passato dal futuro, la vita dalla morte.


Valentina Tanni

testo scritto per il catalogo della mostra: Rafael Pareja. Li hai visti così lontano, Galleria Sergio Tossi, Firenze, 2004
info – scarica il testo: ita/ eng

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