Milano, Photographia
1-24 marzo 2012
text by Valentina Tanni
limited edition catalogue
ITALIANO
“I live cement
I hate this street
Give dirt to me
I bite lament
This human form
Where I was born
I now repent”
Pixies – Caribou, 1987
Una consistente – e insistente – quantità di materia dimora nel mondo della musica. Nonostante la tanto discussa smaterializzazione che, con buona pace dei nostalgici, fa circolare sempre meno i supporti e sempre di più le idee, la produzione e la distribuzione della musica si nutre di una miriade di oggetti. Tralasciando per un attimo il cuore di questo universo materiale (strumenti, cavi, corpi, sudore), volgiamo invece lo sguardo verso tutte quegli artefatti “minori” che compongono il santa sanctorum di ogni fan che si rispetti. Copertine, booklet, vinili, cofanetti, fanzine, maglie, spillette, adesivi, poster. Ma anche braccialetti, biglietti, plettri, corde, bacchette. Lungi dall’essere soltanto souvenir, questi oggetti sono veri e propri magneti, che attraggono e trattengono i ricordi, costruendo al contempo un solido universo visuale attorno a quello sonoro. Legato a doppio filo, inestricabile.
Nicola Di Caprio posa da anni il suo sguardo d’artista su questo universo di confine, cercando di comunicarne la potenza, la genuinità, il carattere diretto e primordiale. L’ha fatto portando nelle sue opere gli strumenti (che diventano sculture), le copertine dei dischi (che raccontano la storia di chi li ha scelti e amati), le t-shirt (vere e proprie dichiarazioni d’appartenenza).
Per realizzare il suo ultimo progetto, ironicamente battezzato Post No Bills – un monito beffardo e paradossale – l’artista è sceso in strada. Per quattro anni ha fotografato le affissioni che pubblicizzano concerti e manifestazioni musicali di ogni genere, concentrando però l’attenzione non sul “centro” della comunicazione quanto sulle sue zone liminali: gli incroci, le sovrapposizioni, le giustapposizioni spesso incongrue che l’attacchinaggio casuale inevitabilmente genera. L’obiettivo non cattura mai l’intero manifesto, ma seleziona con cura il dettaglio generando così dei collage accidentali, in cui l’elemento comprensibile si riduce al minimo, e in cui forme, colori ed elementi tipografici diventano l’alfabeto di una partitura astratta. Se da un lato il richiamo alle Avanguardie storiche e alla Pop Art rimane una citazione ben ravvisabile, una primogenitura ineludibile, dall’altro l’operazione non potrebbe essere più contemporanea nella sua attitudine al remix, che in questo caso non è solo una parola di moda, ma esprime un legame profondo e strutturale con il grande protagonista assente del progetto: il suono. Un suono che è quello evocato dagli eventi pubblicizzati nei manifesti, ma che è soprattutto il rumore sconnesso e ibrido della città (le foto sono state scattate a Milano, Parigi, Berlino e Copenhagen), uno scenario che non si offre mai allo sguardo – l’occhio è sempre troppo vicino – ma fa sentire con forza la propria presenza.
Le immagini sono crude, mancano di qualsiasi compiacimento estetizzante. Non è una ricerca dell’interessante nel brutto, o del significante nel caos. Si tratta piuttosto di un particolare esercizio di osservazione, un attento prelievo di frammenti che vengono poi riutilizzati per evocare interi universi. Fatti di colla, asfalto, scoperte, rinunce, conquiste, ricordi. Di appuntamenti attesi e vissuti. E qualche volta mancati.
ENGLISH
A consistent – and insistent – amount of matter can be found within the world of music. Despite a hotly contested dematerialization which, nostalgic desires aside, puts an increasingly smaller number of supports and an increasingly larger number of ideas into circulation, the production and distribution of music feeds of a myriad of objects. Setting aside for a moment the heart of this material universe (instruments, cables, bodies, sweat), let’s direct our gaze to all those “minor” artifacts that make up the santa sanctorum of any fan worthy of the name. Covers, booklets, records, cases, fanzines, t-shirts, sweatshirts, buttons, pins, stickers, posters … even wristbands, ticket stubs, guitar picks, cords, drumsticks. These are not merely souvenirs, but true magnets, attracting and storing memories while at the same time constructing a solid visual universe around sound. The two are bound as one, inextricable.
For years now Nicola Di Caprio has been directing his artist’s eye on this borderline universe, attempting to communicate its power and genuineness, its direct and primordial character. He has done so by transporting instruments (which become sculpture), album covers (which tell the tale of those who select and love them) and t-shirts (true declarations of loyalty) into his artwork. In order to realize his most recent project, ironically named Post No Bills – a warning at once mocking and paradoxical – the artist has taken to the streets. For three years, Di Caprio spent time photographing concert posters and music billboards of all kinds, concentrating his attention not on the “center” of these forms of communication as much as on their liminal areas: the intersections, superimpositions and often incongruous juxtapositions that casual exposition inevitably generates. His lens never captures the entire advertisement, but carefully selects a given detail, thereby generating accidental collages in which the comprehensible element is reduced to a minimum, in which form, color and typographical elements become the alphabet of an abstract musical score. While on the one hand the echo of historical avant-garde and Pop Art remains a clear citation, an inescapable primogeniture; on the other the operation could not possibly be more contemporary in its attitude towards remixing – in this case not only a trendy word, but an expression of Di Caprio’s profound and structural connection with the great absent protagonist of this project: sound. It is a sound evoked by the events advertised in the posters, and especially the disconnected and hybrid noise of the city (the photographs were taken in Milan, Paris, Berlin and Copenhagen), a scenario that never presents itself to the eye – our gaze is always too close – yet makes the power of its presence felt.
The images are crude, devoid of aesthetic satisfactions. It is not an investigation of that which is interesting in the ugly, or into the meaning of chaos. Rather it is a particular exercise in observation, a careful withdrawal of fragments that are then reused to evoke entire universes. They are made of glue, asphalt, discoveries, renunciations, conquests and memories … of appointments long awaited and fully experienced. And sometimes missed altogether.