Testo pubblicato nel catalogo della mostra “C’era una volta un futuro“, Roma, marzo 2010
di Valentina Tanni
“Ce n’est pas d’où vous prenez les choses, c’est où vous les portez.” – Jean-Luc Godard
L’arte è il regno delle alternative. È da sempre il luogo dove i punti di vista si moltiplicano e si intersecano, trasformando l’orizzonte del reale. Ma l’opera artistica, oggi più che mai, vive un’esistenza paradossale: è un oggetto inutile ma non irrilevante, controverso ma non rivoluzionario. Non serve il potere ma tante volte lo accompagna; è merce di lusso e virus culturale; si sforza di fare affermazioni chiare lasciandosi sfuggire messaggi contraddittori. Ha un suo sistema di riferimento, ma si insinua (spontaneamente o forzatamente) in tutti i contesti.
Questa intrinseca instabilità – dell’opera, dei suoi contesti, delle sue possibili interpretazioni, del suo ruolo sociale – non può più essere letta come una condizione transitoria. Ma soprattutto non è in questa inafferrabilità (una natura aperta che ha saputo diventare, nei casi migliori, un elemento di forza) che vanno ricercate le ragioni di quella che tanti percepiscono come una crisi del linguaggio artistico. Un linguaggio che appare depotenziato, ripiegato su sè stesso, incapace di rinnovarsi, e per questo sempre meno in grado di costruire visioni, di attestarsi in posizione di avanguardia, di funzionare da radar dell’immaginario e del pensiero in un’epoca di profondi cambiamenti. Una condizione, questa, che rende l’arte dei nostri tempi incapace non solo di declinare il proprio discorso al futuro, ma talvolta anche di raccontare il presente. Le ragioni di questa crisi non risiedono, tuttavia, nel linguaggio, né tantomeno negli strumenti dell’arte o nei contesti in cui essa decide di insediarsi.
Il nocciolo della reazione a catena che sta investendo la ricerca artistica, infettandola come un virus, va cercata molto più nel profondo. La crisi sta tutta nelle motivazioni del gesto artistico, sempre più influenzate da una rovinosa tendenza al professionalismo. E non parliamo, si badi bene, di una generica inclinazione al mestiere, né vogliamo celebrare la purezza dell’artista isolato e “fuori dal sistema”. Non si intende attaccare il sistema dell’arte tout court o polemizzare sullo strapotere del mercato. Quello che vogliamo sottolineare qui è la pericolosa infiltrazione del modus operandi manageriale all’interno della stessa ricerca artistica. Nel modo in cui le opere vengono concepite, nelle strategie di promozione applicate scientificamente, nei deliranti tentativi di auto-storicizzazione.
Il vero problema quindi non sta nel linguaggio, né nella capacità di essere più o meno originali («non importa da dove prendi le cose», scriveva Godard, «ma dove sei in grado di portarle»); la debolezza che percepiamo nell’arte di oggi – in quella più visibile, s’intende – coincide con un vuoto motivazionale. Raramente avvertiamo dietro alle opere quell’urgenza interiore che è da sempre il motore primario dell’arte. Ma questo non vuol dire necessariamente che quell’urgenza sia scomparsa. MMagari è solo stata messa in minoranza, svalutata, ricacciata in basso nella scala dei valori. Magari c’entra la nostra capacità – come singoli e ancor più come sistema – di volgere lo sguardo e i riflettori dal lato giusto?